Il Giudice di pace di Bari ha condannato due gruppi della grande distribuzione a risarcire un consumatore per il danno derivato dalla pubblicità indesiderata inserita nella cassetta postale.
Il sig. X conveniva in giudizio la società Y e la società Z per sentirle condannare al risarcimento dei danni subiti per l’impossibilità di utilizzare la propria cassetta postale, a causa dell’occupazione della medesima con i cataloghi pubblicitari delle società convenute.
I cataloghi pubblicitari, composti da numerose pagine, lasciavano fuoriuscire la posta indirizzata all’istante, impedendo così l’uso normale della cassetta, nonostante l’amministrazione condominiale avesse già espressamente vietato l’immissione di cataloghi pubblicitari nelle cassette dei condomini con un cartello esposto in modo chiaro e visibile nell’androne dell’immobile.
L’istante si doleva dell’abusivo utilizzo della sua cassetta di posta contro la sua manifesta volontà e sosteneva la lesività della condotta delle società convenute, in quanto l’illegittima diffusione dei cataloghi pubblicitari lo costringeva più volte al giorno a smaltire i cataloghi, con relativa perdita di tempo e con pregiudizio considerevole al normale e voluto uso della propria corrispondenza.
La condotta delle società Y e Z era dall’istante ritenuta lesiva della propria quiete e della propria riservatezza.
L’adito giudice di pace rigettava innanzitutto le eccezioni preliminari di nullità della citazione e di incompetenza per territorio; in ordine a tale ultima eccezione, il giudice di pace di Bari rivendicava la propria competenza territoriale individuando il foro competente con riferimento al luogo in cui si è verificato il fatto produttivo del danno e non nel luogo in cui deve essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio, trattandosi di danno extracontrattuale.
Nel merito, il Giudice sottolineava la titolarità esclusiva della proprietà della cassetta postale in capo all’istante, al quale soltanto è riconosciuto il diritto di manifestare la volontà contraria ad ogni utilizzo della predetta cassetta postale diverso da quello suo proprio, consistente nel raccogliere gli atti di corrispondenza indirizzati all’intestatario, ed in particolare il diritto di vietare l’inserimento di qualsivoglia forma di pubblicità.
Il Giudice disattendeva pertanto l’argomentazione della difesa convenuta secondo la quale tutte le volte in cui il condomino apriva la porta dello stabile consentendo l’ingresso dell’addetto al volantinaggio consentiva implicitamente l’inserimento del materiale pubblicitario all’interno della cassetta, derogando al divieto imposto con il cartello affisso nell’androne.
Pur inquadrando la pubblicità commerciale nella esplicazione della libertà economica sancita dall’art. 41 della Costituzione, il Giudice di pace ha comunque evidenziato che nelle ipotesi in cui tale diritto viene esercitato in forma ossessiva o comunque invadente esso finisce per comprimere e spesso per ledere la personalità del destinatario del messaggio pubblicitario, limitandone la libertà di decisione.
Il Giudice barese pertanto, sulla base di tali considerazioni, accordava il risarcimento del danno al richiedente in quanto “la funzione specifica cui è asservita la cassetta postale è quella di raccogliere gli atti di corrispondenza indirizzati all’intestatario, unico legittimato a estenderne l’utilizzazione anche per altri fini, non escluso quello di ricevere qualsivoglia forma di pubblicità. Pertanto ove il titolare della cassetta abbia espresso inequivocabilmente una volontà contraria è evidente che a nessuno deve essere consentito di tenere un comportamento contrastante tale volontà”.
La condotta delle Società convenute era pertanto ritenuta illegittima in quanto risultava che avesse superato il fisiologico limite posto all’esercizio di un diritto, nel caso specifico la manifesta volontà del destinatario a vietare l’esercizio del volantinaggio.
Nel bilanciamento di interessi contrapposti, quali l’esercizio dell’attività economica da un lato e la riservatezza e tranquillità dall’altro, emerge l’esigenza di privilegiare queste ultime in quanto espressione di principi costituzionali di maggiore rilevanza sociale, nel pieno rispetto del principio di autodeterminazione.
IL DANNO ESISTENZIALE
Il Giudice adito, nel condannare le società convenute per il risarcimento del danno ingiunto lamentato dall’istante, compieva interessanti rilievi in merito alla figura del “danno esistenziale”, offrendo l’occasione per ripercorrere brevemente in questa sede le più significative tappe giurisprudenziali che hanno contribuito a delineare tale ipotesi di danno, nel quadro di accesi contrasti e dibattiti.
Collocandosi nel solco di una consolidata giurisprudenza di merito e di legittimità, il giudice barese collocava il danno esistenziale tra i danni non patrimoniali, ricompresso nel paradigma normativo dell’art. 2059 del codice civile ma distinto tanto dal danno morale soggettivo, inteso quale turbamento dello stato d’animo della persona, quanto dal danno biologico inteso quale lesione dell’integrità psico – fisica dell’individuo.
Il danno esistenziale veniva definito quale danno derivante dalla lesione di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona, collegato alle “compromissioni peggiorative della sfera esistenziale del danneggiato”, e potenzialmente destinato a ricomprendere tutti quei danni che ostacolano le attività realizzatrici della persona umana.
La decisione in commento si colloca nel solco di quella giurisprudenza di legittimità secondo la quale “ciò che rileva, ai fini dell’ammissione al risarcimento, in riferimento all’art. 2059 cc., è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica” (Cass. n. 8828/03).
La sentenza da ultimo citata è solo uno dei termini di riferimento nell’ottica del problema che divide gli interpreti e la stessa giurisprudenza di legittimità: il danno esistenziale è irrinunciabile voce di cui si compone il nuovo danno non patrimoniale, ossia il danno arrecato a valori inerenti alla persona dotati di rilievo costituzionale, o è piuttosto un “guscio vuoto” inutile e pericoloso, in quanto causa di confusione e della possibile duplicazione delle pretese risarcitorie?
Al di là delle varie tesi dottrinali sull’inquadramento del danno esistenziale (se sia un tertium genus accanto al danno patrimoniale e non patrimoniale, o una voce del danno non patrimoniale), il vero problema sta a monte, vale a dire nella stessa ragione di essere di un danno non patrimoniale diverso dal danno biologico e dal danno morale.
Il danno esistenziale è stato infatti spesso accusato di essere un vaso di pandora, una clausola vuota, una categoria superflua insidiosa e rischiosa; una tendenza recentemente avallata da una sentenza della Suprema Corte di Cassazione (cui tuttavia è seguita, a brevissima distanza, una pronuncia di segno contrario) nella quale si afferma che il danno non patrimoniale comprende anche lesioni che non hanno diretta attinenza all’integrità psico-fisica del danneggiato, ma che tuttavia devono essere comprese all’interno del danno morale e non del danno esistenziale, figura ritenuta priva di fondamento normativo e foriera del rischio della duplicazione dei risarcimenti (Cassazione sez. III n. 15022/2005)
La sentenza da ultimo citata solleva tuttavia numerose perplessità.
In primo luogo, occorre inquadrare correttamente la decisione in esame nella fattispecie concreta sulla quale i giudici di legittimità erano chiamati a pronunciarsi, vale a dire la perdita del rapporto parentale. In tale occasione, è ragionevole e condivisibile ritenere che il giudice di merito avesse già adeguatamente tenuto conto del danno alla vita di relazione attraverso l’applicazione del meccanismo tabellare relativo al danno morale.
Tuttavia, una cosa è valutare la logicità e la correttezza di una quantificazione ancorata a parametri tabellari certi, un’altra è privare a priori il danno esistenziale di qualsivoglia utilità e supporto normativo.
Come rileva la medesima Corte di Cassazione (sez. I, n. 19354/2005, cui sopra si faceva riferimento), la figura del danno esistenziale è stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, anche di legittimità, per offrire ristoro a quei pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione di diritti fondamentali della persona, costituzionalmente garantiti, diversi dalla salute e dunque non riconducibili alla categoria del danno biologico né a quella del danno morale.
In altre parole, al danno esistenziale è attribuito il delicatissimo compito di sopperire alle carenze ed ai limiti dell’art. 2059 c.c., al fine di non lasciare prive di tutela risarcitoria lesioni di valori collocati al vertice della gerarchia costituzionale (art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo) che non si concretizzano in lesioni dell’integrità psico-fisica né in turbamento e sofferente contingenti e transeunti.
Sembrano pertanto ingiustificate e immotivate le critiche sollevate dalla dottrina e dalla giurisprudenza al concetto di “danno esistenziale”, e soprattutto sembrano ingiustificati i timori e le remore posti alla base del rifiuto al riconoscimento di tale specifica tipologia di danno.
Si teme che il danno esistenziale, o come a volte definito, il “danno da seccatura”, crei una “duplicazione di risarcimenti”e che lasci troppo spazio alla discrezionalità del giudice.
Tali preoccupazioni sono agevolmente superabili qualora si consideri che nel nostro ordinamento sono numerosissimi i casi in cui la discrezionalità del giudicante è forte, senza che questo abbia ostacolato la configurabilità di alcuni istituti di primaria importanza quali, per fare un esempio, il nesso causale nel diritto penale.
E’ compito dell’interprete, certo delicato ma irrinunciabile, compiere una valutazione che bilanci due contrapposte esigenze: evitare che la medesima lesione sia risarcita due volte, e non lasciare prive di tutela lesioni di diritti della personalità.
Il danno esistenziale non può essere riduttivamente qualificato come danno da scocciatura o da seccatura, in quanto frutto di un’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale che ha faticosamente riconosciuto tutela a tutti gli illeciti che impediscono all’individuo il libero espletamento di attività areddituali che concorrono alla sua realizzazione esistenziale.
Il contrasto giurisprudenziale venutosi a determinare tra le sezioni prima e terza della suprema Corte rende probabile, e auspicabile, un intervento a Sezioni Unite che risolva la controversa questione.