La Sindrome di Alienazione Parentale

Ordinanza del Tribunale di Roma del 23 novembre 2011
Il fatto

Nel procedimento di separazione giudiziale tra due coniugi di Roma, il Presidente nell’ordinanza presidenziale emessa nel dicembre 2009, collocava il figlio, all’epoca di tredici anni, presso il padre, stabilendo un preciso e circostanziato calendario di visite da realizzare tra madre e figlio.

In quella sede, il Presidente disponeva anche l’intervento dei Servizi sociali al fine di favorire il superamento del distacco tra madre e figlio per pronunciarsi, sull’ampliamento del periodo di permanenza del minore con la madre, all’esito dell’intervento degli stessi ed in assenza di ragioni ostative.

Nonostante i numerosi e ripetuti tentativi della madre di frequentare il figlio, la stessa si trovava di fronte ad espressi o taciti rifiuti del minore, il quale, coinvolto nella conflittualità dei genitori e gravemente influenzato dal padre, con il quale convive tuttoggi, stenta a recuperare il necessario nonché insostituibile rapporto con la madre.

Il ragazzo, in realtà, aveva sempre avuto una normale e serena relazione con la predetta fino alla separazione e, solo in seguito, ha completamente assorbito e fatto proprio il punto di vista del genitore “preferito” nei confronti della stessa.

Il sig. Y, da parte sua, non solo ometteva di collaborare nel garantire un reale e concreto esercizio del diritto di visita della madre con il figlio, ma favoriva l’allontanamento tra i due, perdendo completamente di vista l’interesse prevalente del minore ed alimentando, direttamente e/o indirettamente, l’animosità dello stesso verso la madre, la quale non riusciva ad eseguire l’ordinanza presidenziale nel calendario di visite fissato e ciò per causa a lei non imputabile.

In spregio a quanto stabilito anche nell’ordinanza presidenziale del dicembre 2009, il padre si rendeva, quindi, talmente inadempiente che la signora si vedeva costretta ad introdurre ricorso ex art. 709 ter c.p.c. al fine di evidenziare le gravi inadempienze dell’uomo e, successivamente, istanza per la modifica dell’ordinanza presidenziale al fine di chiedere l’affidamento esclusivo del minore alla stessa.
La decisione del Giudice Istruttore con ordinanza del 23 novembre 2011 in corso di causa

Il Giudice Istruttore, pur avendo riconosciuto come “dato” “lo schieramento del figlio” in favore del padre nonché “il maturato convincimento del figlio stesso dell’addebito della separazione a carico della madre” quale “genitore colpevole”, e pur ravvisando una “cd. alienazione parentale oggettiva”, rigettava l’istanza ex art. 709 ter e di modifica ex art. 709 c.p.c. avanzata dalla madre nonché la richiesta di CTU ritenendola “sgradita al minore”.

Nell’ordinanza si riconosce espressamente la sussistenza della sindrome di alienazione parentale oggettiva, facendo anche uso di termini quali ”genitore colpevole, genitore prescelto, convincimento di addebito della separazione ad uno dei due”.

Il G.I. ha rilevato come la situazione di conflitto genitoriale madre – figlio sia “consciamente gradita al padre o non efficacemente combattuta da quest’ultimo genitore, e ha riconosciuto espressamente l’influenza negativa dello stesso sul minore, nonché la grave omissione nel non collaborare per il recupero del rapporto madre-figlio, tuttavia, lo stesso Giudice non ha ritenuto di accogliere alcuna istanza, anche istruttoria, formulata dalla donna, limitandosi, invece, a disporre che entrambi i genitori si sottoponessero “ad interventi di chiarificazione e sostegno delle proprie competenze educative nonché di mediazione del loro conflitto, a cura del Consultorio familiare competente” ovvero all’equipollente servizio ASL, per l’attuazione degli interventi a tutela del figlio minore, ed in seconda battuta, ove ritenuto opportuno, anche nei confronti del minore stesso.

Da una lettura prima facie emerge chiaramente la palese contraddittorietà della decisione assunta in corso di causa, in quanto il G.I., anche alla luce della documentazione prodotta dalla donna, ha riconosciuto come il padre non abbia per nulla favorito la distensione dei rapporti madre-figlio, alimentando la conflittualità, ma non ha deciso, conseguentemente, di assumere qualsivoglia provvedimento teso al riavvicinamento dei due, non ritenendo utile l’imposizione di misure coercitive al ragazzo.

Tale evidente contraddittorietà è stata implicitamente confermata anche dalla relazione dello psicologo incaricato dal Consultorio competente, il quale, nel rilevare l’alto livello di conflittualità esistente tra i genitori, nonché la difficoltà di incontro tra il ragazzo e la madre, suggeriva che lo stesso rimanesse nella casa coniugale e che i genitori alternassero la loro presenza nella casa con tempi e modalità congrue, quali, almeno uno o due mesi ciascuno e con alternanza per le festività e le ferie.

La soluzione prospettata dal Consultorio evidenzia la necessità di stimolare il minore nei confronti della madre, la quale, convivendo con lo stesso in alternanza con l’altro genitore, avrebbe la possibilità di stare vicino al figlio nelle sue esigenze quotidiane e pian piano riallacciare un rapporto nuovo e maturo.

Il comportamento del figlio, come riconosciuto dal Giudice stesso, è, infatti, descritto come quello di un figlio che si allea con il genitore che sente più simile a sé, ovverosia quello che pensa sia la vittima della separazione.

È come se il ragazzo volesse prendersi cura del padre, colpevolizzando la madre della crisi coniugale e, pertanto, della sua sofferenza.

Per tali ragioni, risulta quanto mai urgente e necessaria l’adozione di un provvedimento del Giudice che recepisca quanto suggerito dal Consultorio adito.

È verosimile credere, infatti, che, anche se inizialmente sgradito al minore, il predetto provvedimento possa favorire il riavvicinamento madre-figlio, soprattutto al fine di evitare danni irreversibili nell’equilibrio psicofisico e nella sana crescita del ragazzo che, da troppo tempo, vive senza il riferimento genitoriale della madre.

Ne deriva, dunque, l’oggettiva adeguatezza e necessità di modificare i provvedimenti presidenziali, peraltro, nel caso di specie, mai eseguiti e totalmente elusi dal padre nonché di dare concreto avvio alla proposta formulata dal Consultorio familiare.
La Sindrome di Alienazione Parentale

La separazione o il divorzio causano, sempre più spesso, ai figli minori, una sindrome psicologica da alienazione genitoriale.

La sindrome da alienazione genitoriale è un disturbo che emerge soprattutto negli stati di conflitto tra i genitori in cui il collocatario dei figli, detto alienante, mette in atto un vero e proprio programma di denigrazione nei confronti dell’altro genitore che viene escluso dalla vita dei figli stessi.

La Parental Alienation Syndrome (o P.A.S.), sindrome da alienazione genitoriale o parentale, è una patologia psicologica che ormai colpisce più di un terzo dei fanciulli italiani, figli di genitori separati o divorziati e li segue talvolta per tutta la loro esistenza.

Un genitore collocatario che ritiene controproducente il rapporto dei figli con l’altro genitore ed arriva ad attivare strategie di esclusione di quest’ultimo, viene considerato come affetto da una forma di disagio psicologico. Una psicopatologia che può avere gravi ricadute sui figli e le cui conseguenze si stanno ancora studiando.

La Sindrome di Alienazione Genitoriale, definisce le situazioni in cui il genitore che convive con i figli li suggestiona fino al punto che il rapporto fra gli stessi ed il genitore non convivente si degrada e, talvolta, si interrompe del tutto.

Nella PAS, i figli finiscono per mostrare un astio ed un disprezzo ingiustificato e continuo verso il genitore con il quale non convivono; astio e disprezzo non dovuto a mancanze, trascuratezze o addirittura violenze di questo genitore, ma prodotto da un’alleanza crudele che il genitore collocatario impone ai figli.

Il primo ad aver sistematizzato la descrizione della sindrome in esame, è stato Richard A. Gardner, della Columbia University di New York.

Usando le parole dello stesso Gardner, la PAS è: “Un disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (genitore alienato). Tuttavia, questa non è una semplice questione di “lavaggio del cervello”, o “programmazione”, poiché il bambino fornisce il suo personale contributo alla campagna di denigrazione. E’ proprio questa combinazione di fattori che legittima una diagnosi di PAS. In presenza di reali abusi o trascuratezza, la diagnosi di PAS non è applicabile.”

La PAS è caratterizzata da otto sintomi primari, espressi dai figli come prodotto di una programmazione (o lavaggio del cervello) da parte del genitore collocatario.
Le caratteristiche

La P.A.S. è chiaramente osservabile nei figli dei soggetti separati o divorziati già dal terzo anno di vita, perché tra l’altro già a questa età si manifesta con mutamenti di abitudini (modi di dormire, alimentarsi, abbigliarsi); carattere (timidezza, chiusura, incertezza, paura, esibizionismo, reattività, sfida del rischio); comportamenti (modi di reagire alle gratificazioni, alle sconfitte della vita di relazione); rendimento (disturbi del rendimento scolastico e lavorativo); e motivazioni (incostanza motivazionale ed incertezza degli obiettivi).

Il nesso di causalità tra la sindrome (P.A.S.) ed il vissuto negativo dei figli dei separati o divorziati durante l’età evolutiva, emerge dalla presa di coscienza dell’allontanamento di un genitore dalla famiglia, non tanto in senso fisico ma in senso psicologico- relazionale.

Il figlio, appena percepisce l’avvenuta separazione dei genitori, è coinvolto dalle pressioni psicologiche dei genitori e del contesto familiare con cui prevalentemente vive.

Tale influenza negativa sui figli è prodotta ed alimentata dal genitore che rimane a vivere con gli stessi e che dà luogo alla Parental Alienation Syndrome.

Si assiste, cioè, ad vero e proprio schieramento incondizionato del figlio a favore del genitore alienante senza che sia possibile alcun sovvertimento delle posizioni; il figlio manifesta apertamente mancanza di rispetto o disprezzo delle qualità di un genitore senza che l’altro (che è agevole identificare con l’alienante) manifesti la sua disapprovazione;
Come agire

Il ruolo dell’avvocato dovrebbe tendere sempre verso soluzioni alternative, sottolineando le potenzialità fortemente dannose della sindrome di alienazione parentale ed evidenziando anche il ruolo fondamentale giocato dalla mediazione familiare nella risoluzione del conflitto tra genitori.

Occorre indurre i genitori a non commettere l’errore di disprezzare o discreditare il coniuge allontanato, davanti ai figli, al fine di evitare la produzione di un danno grave e duraturo che si abbatterebbe rovinosamente e principalmente sul loro equilibrio mentale e sulla loro futura riuscita socio-familiare e lavorativa.

Nonostante la vasta diffusione del fenomeno della sindrome di alienazione parentale, infatti, lo stesso è ancora poco conosciuto dagli operatori del settore, restii a sanzionare con la necessaria severità i comportamenti alienanti, forse perché ancora poco consci delle ripercussioni a livello psicologico e comportamentale non solo nel genitore alienato ma, anche e soprattutto, nel minore.

La tesi di Gardner, padre della SAP, era proprio volta a confutare la radicata opinione, riscontrata anche nell’ordinanza in esame, che se un figlio non vuole più incontrare l’altro genitore non c’è niente da fare, e qualsiasi imposizione in tal senso sarebbe contraria al suo interesse.

In realtà, la gravità di una situazione simile è evidente, se si considerano gli effetti sul minore, il quale subisce una violenza emotiva che crea danni enormi al suo sviluppo emozionale compromettendo il rapporto con il mondo femminile di cui la madre è rappresentante.

Orientamento costante di molte Corti superiori è quello della necessità per i minori di avere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, anche in caso di radicato conflitto tra i genitori stessi.

Né il rifiuto dei figli stessi può costituire presupposto sufficiente per giustificare l’assenza di rapporto genitoriale con uno dei due.

In tal senso, ex multis (Tribunale di Modena, ordinanza del 7 aprile 2006; Tribunale di Napoli ordinanza del 11 marzo 2008; Tribunale di Varese, ordinanza del 7 maggio 2010; Corte d’appello Catania 14 novembre 2007; Corte d’Appello Catania, febbraio 2010; Cass. Civ. sentenza n. 2925/99; Cass. SS.UU. sentenza 27 settembre 2007, n. 36692; Cassazione, Sez. VI pen., sentenza 16 giugno 2010, n. 23274), si evidenzia la decisione del 13 febbraio 2009 con cui la Corte d’Appello di Firenze ha sostenuto che l’interesse prevalente del minore e il rispetto della sua personalità risulta compatibile con l’adozione di provvedimenti coercitivi nei suoi confronti al fine di garantire la bigenitorialità, imponendo, quindi, la frequentazione del minore con il padre “alienato”.

Nel caso oggetto della decisione sopra citata, la sindrome di alienazione parentale in atto (accertata a mezzo di CTU), determinata dalla madre nei confronti del padre, ha imposto l’adozione di immediate misure nonché l’ammonizione della madre per la quale si è paventata l’esclusione dall’affidamento, senza giungere alla sua concreta attuazione ma “minacciando” la stessa in caso di persistenza nell’atteggiamento alienante.

In tal modo i giudici hanno affermato la compatibilità di una tale “forte” misura con l’interesse del minore, anche nelle ipotesi in cui quest’ultimo mostri un atteggiamento gravemente ostile nei confronti del genitore bersaglio.

 

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