Crescono i trentenni che chiedono di essere mantenuti

ROMA (5 ottobre) – Le difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro tagliano le ali ai giovani. C’è chi vuole indipendenza e una casa propria ma non gli riesce. Però per molti la spinta a uscire dal guscio è debole. Vivono in una illusoria adolescenza e la sindrome del rinvio prende il sopravvento. Più del sessanta per cento dei trentenni (dati Istat) vive ancora con mamma e papà.
Da anni il passaggio all’età adulta avviene più lentamente rispetto al passato, non solo per problemi strutturali che vanno dal lavoro precario ai costi elevati degli alloggi. E’ cambiato il costume. Non si sa più dove finisca l’adolescenza e cominci la vita adulta. E’ sparito il confine. Ed è esplosa una nuova patologia: i figli contro i padri. Non per uno strappo generazionale, non per un atto di libertà, ma per una sfida («loro hanno i soldi, mi devono mantenere finché ne ho bisogno, a costo di trascinarli in tribunale».
E in tribunale finiscono i genitori denunciati da figli più che maggiorenni. E’ un fenomeno nuovo, preoccupante, segnale di una nuova crisi della famiglia. «Ci sono ultratrentenni mantenuti da genitori di settanta e ottanta anni – afferma l’avvocato Ettore Gassani, presidente dell’Ami, l’Associazione dei matrimonialisti italiani – Il fenomeno colpisce il ceto medio, genitori pensionati con 800-1000 euro al mese, gente normale, che non ce la fa più. I figli dei professionisti, invece, sono un caso a parte, loro sono già viziati da assegni cospicui. Che cosa sta accadendo? I ragazzi, affermano il “diritto” a essere aiutati sempre, però questo si trasforma in un vitalizio, in un assegno mensile sine die. Casi isolati? Macché, i casi sono numerosi in tutti i tribunali d’Italia.
Tanto che ci rivolgeremo ai parlamentari di entrambi gli schieramenti. Chiediamo una legge che stabilisca un’età oltre la quale il mantenimento non sia più obbligatorio». Ma come siamo arrivati a tanto? «Troppe sentenze della Cassazione – sostiene ancora Ettore Gassani – hanno creato una giurisprudenza favorevole al mantenimento. Fino a una certa età è ovvio che un figlio sia mantenuto, ma non oltre i trenta! Non possiamo assicurare rendite ai “bamboccioni”. Così, anche inconsapevolmente, si svilisce ogni legittima ansia di indipendenza».
L’associazione dei matrimonialisti denuncia: «Troppi quelli che vivendo in casa, o fuori, a fine mese battono cassa – afferma Gassani – Vogliamo ancora chiamarla paghetta? Non solo non contribuiscono alle spese di casa ma fanno un odioso ricatto. Citano in giudizio i genitori. Il figlio per avere soldi basta che dichiari di essere in difficoltà, dice che ha l’esaurimento nervoso e il gioco è fatto, dice che vuole fare l’avvocato, il chirurgo, e che per organizzare il suo futuro gli serve il mantenimento.
Eppure parliamo di gente che ha tagliato il traguardo dei trenta». Non c’è giudice che in qualche modo non li assecondi. Tra i tanti casi quello di un ragazzo di 34 anni, iscritto a medicina ma fuori corso da anni, che ha promosso un’azione legale contro il padre, medico. Il caso è stato discusso in un tribunale del Lazio. Il ragazzo viveva fuori casa, a Roma, dove faceva la bella vita con l’assegno di papà. Quando il padre ha chiuso i rubinetti perché il libretto d’esami era un disastro, il 34enne ha fatto causa al genitore. «Il giudice gli ha concesso 500 euro mensili, non i 1.500 che pretendeva, però poteva andare peggio», commenta ancora il presidente dell’Associazione matrimonialisti. Il fenomeno riguarda i figli di coniugi felicemente sposati, di genitori soli, o separati. «In quest’ultimo caso – sostiene ancora Gassani – c’è chi si inserisce nella vertenza dei genitori. Molti, non soddisfatti dell’assegno ottenuto dal giudice, avviano una loro causa, reclamando gli stessi diritti della moglie, anche se sono maggiorenni».
L’Associazione matrimonialisti italiani pochi giorni fa ha diffuso un documento, vuole accendere i riflettori sul tema, dopo una ennesima sentenza che ha fatto discutere. L’Alta Corte ha riconosciuto a un ragazzo il diritto a essere mantenuto dal padre, dopo essersi licenziato dal suo posto di lavoro per ricominciare a studiare. «La sentenza in questo caso è condivisibile – afferma il presidente dell’Ami – dal momento che il ragazzo ha venti anni, ma ci preoccupano gli orientamenti giurisprudenziali che sanciscono il diritto dei figli a essere mantenuti all’infinito. Invece, servono limiti di età oltre i quali, salvo casi eccezionali, non venga più riconosciuta a un figlio ultramaggiorenne la pretesa di essere mantenuto. La nostra giurisprudenza, senza volerlo, ha contribuito al fenomeno tutto italiano dei “bamboccioni”. Tanto che nelle separazioni e nei divorzi i giudici non fanno più distinzione tra figli maggiorenni e minorenni, anzi gli assegni dei primi sono di gran lunga superiori, perché si considera che le spese per condurre una vita dignitosa siano maggiori rispetto a un bambino. Ma questo diritto non può essere esteso senza limiti».
E il codice civile? «Dice che un figlio maggiorenne – sottolinea Gassani – se vive nella casa familiare è tenuto a contribuire alle spese, di fatto nessuno rispetta il codice, anzi, siamo al fenomeno appena descritto. A farne le spese sono pensionati di settanta-ottanta anni che ancora mantengono figli di trenta-quaranta. A questo punto urge una legge, che liberi i genitori da questo onere infinito. Nei Paesi anglosassoni, per esempio, il diritto al mantenimento scade con la maggiore età, a 18 anni. Ovviamente non significa che i figli vengano buttati per strada, i genitori continuano ad occuparsene e a mantenerli finché necessario, ma a loro discrezione».
Sono d’accordo sulla necessità di porre limiti al mantenimento anche gli avvocati esperti matrimonialisti. Dice l’avvocato Maria Luisa Missiaggia: «Non si può pretendere di avere un assegno vita natural durante, per fortuna c’è qualche sentenza di segno diverso rispetto a quella dell’altro giorno sul ventenne che si era licenziato. Non tutti i giudici ritengono dovuto il mantenimento dei figli maggiorenni ove questi non dimostrino di avere conseguito risultati scolastici e universitari soddisfacenti, presupposto per il lavoro e conseguente reale indipendenza economica.
 
La Corte di Appello di Catania con una sentenza del 29 maggio 2008 ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva escluso l’obbligo della madre di contribuire al mantenimento della figlia maggiorenne che, all’età di trent’anni, risultava iscritta presso la locale facoltà di Giurisprudenza sin dall’anno accademico 97/98, avendo sostenuto, complessivamente, solo pochi esami, l’ultimo dei quali nel mese di giugno del 2003. Significa che se un figlio non è ligio negli studi e non ha un buon rendimento è giusto che perda l’assegno». La sentenza della Cassazione, invece, ha detto «sì» ai soldi senza porre limiti di alcun genere.

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