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Padre denigra la figlia, sono maltrattamenti?

«Avvocato, non so più come fare. Papà continua a umiliarmi, a dirmi che sono incapace, che non riuscirò mai a combinare nulla nella vita. Lo fa davanti agli altri, come se fosse uno spettacolo. Mi sento sempre più piccola, come se non valessi niente. È possibile che si configuri il reato di maltrattamenti in famiglia?»

«In effetti, recente giurisprudenza considera queste condotte come maltrattamenti, perché le parole possono ferire quanto un gesto, anzi possono lasciare cicatrici più profonde»

Quando le parole pesano come colpi

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30780 del 15 settembre 2025 (Sez. VI), ha stabilito che disprezzare le condizioni o le capacità della figlia può integrare il reato di maltrattamenti in famiglia previsto dall’articolo 572 del codice penale. Un orientamento che allarga ulteriormente l’orizzonte della tutela penale, riconoscendo che la violenza domestica può avere anche natura verbale o psicologica.

Il testo dell’articolo 572 punisce chi «maltratta una persona della famiglia o comunque convivente» con condotte abituali, capaci di infliggere sofferenze fisiche o morali. Non è necessario che vi siano percosse o minacce esplicite: conta l’effetto di sopraffazione e degradazione che si protrae nel tempo per far sì che i maltrattamenti possano configurarsi, incidendo sull’equilibrio emotivo della vittima. La giurisprudenza più recente, soprattutto in ambito familiare, mostra una sensibilità crescente verso queste forme di violenza sommersa, spesso invisibile all’esterno ma devastante per chi la subisce.

Ma cosa dice la Cassazione sui maltrattamenti in questo caso?

Nel caso deciso, i giudici hanno confermato la condanna del padre che, «rivolgendo costantemente espressioni offensive alla figlia, ne aveva compromesso la percezione di sé e il senso di dignità personale». L’abitualità delle offese, unite al disprezzo verso le caratteristiche fisiche e la personalità della ragazza, è bastata, secondo la Corte, a integrare la condotta di maltrattamenti.

La Cassazione ha spiegato che «la violenza non si esaurisce nella materialità dell’atto, ma può manifestarsi nelle parole, quando queste annientano la fiducia in sé e generano paura o umiliazione». È una riflessione che sposta il confine della violenza domestica dal gesto alla relazione, dalla fisicità alla quotidiana umiliazione.

Nella pratica cosa succede?

Da un punto di vista applicativo, la sentenza offre indicazioni molto concrete. Perché si configuri il reato, serve che le condotte siano sistematiche e non episodiche, e che producano un deterioramento dell’equilibrio psicologico della vittima. Nel caso in esame, il racconto della ragazza era stato confermato da testimoni e da un consulto psicologico, che aveva accertato un diffuso stato di ansia e colpa.

Quando l’educazione diventa maltrattamenti

È anche molto importante sottolineare che la giustificazione educativa non può essere invocata se le parole assumono la forma del disprezzo. Il genitore può rimproverare, certo, ma non mortificare. Il limite è sottile ma netto!

La sentenza della Cassazione n. 30780/2025 segna un passo importante verso una concezione più autentica della genitorialità. Essere padre o madre non significa esercitare potere, ma custodire dignità. Il linguaggio del disprezzo, se reiterato, non è più un cattivo modo di fare, ma un vero e proprio strumento di violenza.

 

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