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la “Sindrome della ex moglie”: genesi del disturbo, conseguenze, rimedi

Con l’espressione “sindrome dell’ex moglie” si intende una prolungata condizione di depressione, disistima, conflitto interiore che insorge nella donna dopo la separazione e/o divorzio e si protrae oltre la normale fase di elaborazione del percorso di distacco, potendo sfociare, in soggetti particolarmente deboli o predisposti, in un vero e proprio disturbo psicologico.

La sindrome dell’ex moglie è stata spesso riscontrata in casi di separazione o divorzio seguiti da aspri conflitti giudiziari sull’affidamento dei figli.

Nella maggior parte dei casi, infatti, il senso di abbandono e di frustrazione per la fine del rapporto coniugale, dopo la prima fase di depressione e di rielaborazione interiore, sfocia in un sentimento di rivalsa e di vendetta nei confronti dell’ex marito il più delle volte concretizzato in veri e propri attacchi giudiziari attraverso la strumentalizzazione dei figli minori.

L’origine del disturbo è da ricercarsi in una duplice direzione: da un lato, nelle mutate condizioni sociali e nel diverso ruolo della donna oggi; dall’altro, nella individuale e soggettiva propensione a concepire il rapporto di coppia in modo esclusivo e totalizzante basato sul potere e sulla mancata accettazione del diverso da sé.

Sotto il primo profilo, è superfluo sottolineare che l’attuale società ha visto sparire da tempo il modello della famiglia tradizionale, matriarcale, costruita su relazioni solide e sul sostegno di nonni e parenti, con la donna angelo del focolare al centro della vita domestica, in favore di modelli familiari “atipici”, allargati, in cui il ruolo della donna è sempre meno domestico e sempre più polivalente.

Sotto il secondo profilo, l’evento della separazione per soggetti psicologicamente vulnerabili e sensibili può essere vissuto in modo devastante da chi ha fatto del partner l’unico riferimento e unico elemento essenziale per la soddisfazione dei propri bisogni, condizione indispensabile per la propria felicità. Ed è qui l’errore, fondare il rapporto su bisogni e non su un arricchimento a seguito di una crescita individuale autonoma che trova nella coppia un più soddisfacente modo di vivere.

Alcune donne, spesso inconsapevolmente, continuano a portare dentro di sé lo stereotipo della realizzazione femminile attraverso la famiglia ed i figli, il che le spinge a sentirsi inadeguate, incapaci, fallite se la relazione sulla quale avevano investito le proprie aspettative di felicità giunge al termine.

Non si deve tuttavia credere che la “sindrome della ex moglie” riguardi solo le casalinghe o le donne psicologicamente deboli; spesso la cronaca giudiziaria ha dimostrato anzi che a soffrirne, con conseguenze a volte drammatiche, sono proprio donne con buon livello di istruzione, ben inserite nel contesto sociale, spesso con lavori qualificati e di responsabilità e, di conseguenza, con elevati livelli di stress.

L’origine del disturbo deve pertanto più correttamente essere ricercato nella iniziale impostazione della vita di coppia, nel ruolo che la donna attribuisce al compagno, in quanto investe su di lui.

In tal modo diviene essenziale il mantenimento del rapporto a tutti i costi, anche nei casi in cui tale rapporto è ormai logoro.

Nella fase immediatamente successiva alla separazione, si intrattengono legami con il marito spesso utilizzando i figli come scusa, si nega l’eventuale nuova relazione dell’ex compagno, si esclude la possibilità di rifarsi una vita.

Quando si prende coscienza della definitiva fine del rapporto, il disturbo psicologico evolve in una fase aggressiva, vendicativa, che spinge la ex moglie a danneggiare il marito con lo strumento più semplice e al contempo devastante che ha a disposizione: i figli.

La vendetta può essere attuata in modi diversi: attraverso la denigrazione della figura paterna agli occhi del minore, le limitazioni e gli ostacoli alle occasioni di frequentazione tra padre e figlio, fino a giungere, nei casi più gravi, a formulare false accuse in sede penale spesso per maltrattamenti o addirittura per molestie sessuali.

Spesso la sindrome della ex moglie si accomuna e si confonde con la così detta “sindrome della madre malevola” (o “sindrome di Medea”, dal nome della donna che, secondo la mitologia classica, uccise i figli per punire il padre, Giasone, reo di averla abbandonata).

La cronaca ha purtroppo registrato gravi manifestazioni della sindrome della ex moglie – madre malevola, in cui la madre è arrivata a infliggere lesioni ai propri figli per simulare un reato a carico del marito.

Più frequenti e fortunatamente meno gravi, pur se altrettanto lesivi per la vittima di turno, sono i casi in cui la donna mette in atto un vero e proprio “mobbing” nei confronti dell’ex compagno denigrandolo davanti ai propri figli e mettendo in atto ogni strategia per ostacolarne gli incontri.

Molte madri infatti mentono sullo stato di salute del bambino per impedire che il padre lo porti con sé nei giorni stabiliti, o in quegli stessi giorni fissano visite mediche o attività ricreative; in altri casi, per “accattivarsi” l’affetto del figlio soddisfano desideri e capricci che l’altro genitore disapprova.

La sindrome della ex moglie nella giurisprudenza

Nelle aule giudiziarie il disturbo comportamentale di uno dei genitori è ovviamente preso in considerazione non tanto sul piano psicologico quanto sul piano delle conseguenze che provoca sul minore e sul corretto adempimento degli accordi di separazione.

I giudici pertanto sono spesso chiamati ad accertare la veridicità delle accuse materne (dal mancato adempimento degli obblighi di mantenimento alle più gravi accuse di violenze e molestie) e a ristabilire l’equilibrio del minore attraverso gli strumenti messi a disposizione dalla legge.

In sede civile, norma chiave è l’art. 709 ter c.p.c. introdotto nell’ordinamento dalla legge sull’affido condiviso. La norma è funzionale a garantire il corretto funzionamento delle modalità di affidamento stabilite in un atto già emesso, per consentirne l’esecuzione indiretta in caso di inadempimento, vale a dire attraverso l’adozione di misure coercitive.

Il giudice, in caso di controversie insorte in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o alle modalità dell’affidamento, “adotta i provvedimenti opportuni”, ad esempio inibisce le condotte pregiudizievoli.

In caso di condotte pregiudizievoli reiterate, oltre che modificare i provvedimenti vigenti, il giudice può ammonire il genitore inadempiente, disporre il risarcimento dei danni nei confronti dell’altro genitore o del minore, condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa a favore della Cassa delle ammende.

La recente decisione della Corte di Appello di Firenze del 29.08.2007 costituisce significativa applicazione giurisprudenziale della norma in commento statuendo il risarcimento del danno a favore del figlio e del padre; già prima di questa decisione però la giurisprudenza aveva richiamato la medesima norma per la risoluzione di controversie scaturite dai comportamenti prevaricatori della ex moglie.

Il Tribunale di Catania, per esempio, con ordinanza dell’ 11.07.2006, ha affermato che “quando sussistono comportamenti posti in essere dalla madre volti ad impedire al padre di tenere con sé la prole, il giudice deve invitare il genitore inadempiente ad astenersi da tale condotta altamente pregiudizievole per il corretto sviluppo dei rapporti fra il padre e i minori, la quale potrà in prosieguo, ove perdurante, comportare l’adozione delle misure previste dall’art. 709 ter c.p.c.”.

Ai medesimi principi si ispirano altre decisioni della giurisprudenza di merito.

In un caso di affidamento esclusivo, il Tribunale per i minorenni di Catanzaro (decreto 28 novembre 2006) ha ribadito che “il genitore affidatario ha l’obbligo di cooperare al fine della realizzazione del diritto di visita del coniuge non affidatario assumendo iniziative necessarie ed opportune affinché venga recuperata la figura dell’altro genitore. Entrambi i coniugi devono adoperarsi, pena la decadenza dalla potestà genitoriale, per consentire e facilitare al minore il recupero del rapporto con il padre”.

Il Tribunale ordinario di Roma (ufficio del Giudice tutelare) ha ordinato l’esecuzione di un proprio precedente provvedimento che prevedeva il regime di frequentazione padre-figlio e, preso atto del comportamento ostativo della madre agli incontri del figlio con il genitore, ha disposto che in caso di non collaborazione della madre, il minore fosse preso in consegna da un operatore del Servizio Sociale del Comune di Roma e affidato al padre, con facoltà di richiedere l’intervento della Forza Pubblica in caso di resistenza.

In sede penale, occorre richiamare l’art. 388 c.p. punisce la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice; in particolare, il secondo comma incrimina la condotta di chi elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, che concerna l’affidamento di minori o di altre persone incapaci.

In applicazione di tale norma, il Tribunale di Roma (sentenza n. 20160 del 19.06.2006) ha affermato che per la sussistenza del reato in esame non è sufficiente un mero comportamento inattivo del genitore al fine di agevolare il diritto di visita dei figli minori dell’altro genitore; il reato in esame si configura infatti solo quando il genitore rifiuti ingiustificatamente una attività collaborativa richiesta dal provvedimento giudiziale.

In altre parole, la tutela penale può essere invocata solo quando il genitore abbia tenuto una condotta fortemente ostativa del provvedimento giudiziale, ad esempio nascondendo i minori o trasferendoli in un’altra abitazione; non è sufficiente a configurare il reato de quo il mero rifiuto di attuare il provvedimento.

La bigenitorialità e il ruolo della mediazione familiare

Nonostante le affermazioni di principio della giurisprudenza la concreta applicazione degli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento restano casi isolati; in ogni caso, anche qualora sia disposto il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 709ter c.p.c., o intervenga una condanna penale ai sensi dell’art. 388 c.p., i rimedi mostrano tutta la loro insufficienza di fronte al trauma subito dal minore e al rapporto con il padre spesso ormai irrimediabilmente compromesso.

Il legislatore, preso atto della frequenza dei comportamenti ostativi al rispetto degli accordi, con la legge sull’affido condiviso ha affermato il principio di bigenitorialità considerando primario e fondamentale l’interesse dei figli a mantenere rapporti con entrambi i genitori.

Questo è un significativo passo avanti che tuttavia sconta anche le difficoltà applicative della legge e lo scontro con la realtà delle aule giudiziarie che troppo spesso vedono ancora il minore affidato solo alla madre.

E’ auspicabile che sia presto rivalutato e sostenuto a livello legislativo il ruolo della mediazione familiare quale strumento di supporto alla coppia sia prima sia dopo la separazione.

Il mediatore familiare possiede infatti la professionalità e gli strumenti per aiutare la coppia a divorziare non solo sul piano legale ma anche e soprattutto su quello affettivo, evitando non solo comportamenti di aggressione e vendetta nei confronti del genitore non affidatario ma anche e soprattutto che siano i minori a farne le spese.

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