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Esiste nella coppia un “diritto all’amplesso”?

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione torna ad affrontare il tema scottante del “diritto” all’amplesso nella coppia, solo poche settimane dopo aver decisamente negato l’esistenza di tale pretesa all’interno delle mura domestiche.

Una attenta analisi delle due recentissime pronunce della Suprema corte evidenzia che solo in apparenza le due decisioni contraddittoriamente negano e affermano l’esistenza di un diritto al rapporto sessuale all’interno della coppia, potendo invece ricondursi ad un unico principio di diritto che può essere solo quello del consenso.

Il precedente: la sentenza 24 settembre 2007 n. 35408

La prima vicenda sottoposta all’esame della Cassazione riguarda il caso di una coppia di coniugi separatasi a causa delle ripetute violenze del marito ai danni della moglie.

Tali violenze, protrattesi anche dopo la separazione, avevano portato alla condanna del marito, inflitta in primo grado e confermata in appello, per i reati di maltrattamenti in famiglia, lesioni personali, violazione degli obblighi di assistenza familiare, sequestro di persona, minaccia e violenza sessuale.

Il condannato presentava ricorso alla Corte di Cassazione sostenendo, con riferimento alla condanna per violenza sessuale, che il rapporto in fase di consumazione era proseguito con il consenso della moglie, invocando quindi la scriminante del consenso putativo.

La Cassazione rigettava il ricorso condividendo le conclusioni cui era giunta sul punto la Corte di Appello, la quale aveva correttamente inquadrato l’episodio nel contesto di paura e soggezione creato dal marito ed escludendo pertanto che la donna avesse potuto scegliere liberamente, “trovandosi in uno stato di soggezione psico-fisico idoneo ad incidere concretamente sulla sua libertà di autodeterminazione”.

La violenza si era infatti consumata nella città in cui viveva il fratello dell’ex marito, dove la vittima era stata condotta con la forza; sosteneva il ricorrente che la donna aveva consentito alla consumazione del rapporto, quanto meno allo scopo di convincerlo a riportarla a casa.

La Cassazione, come già il giudice di secondo grado, escludeva la configurabilità del consenso putativo, dal momento che nessuna volontà favorevole al rapporto era stata provata in giudizio, né nella fase iniziale né nel corso del rapporto stesso; inoltre, la Suprema Corte sottolineava che la donna si trovava sola con il proprio figlioletto lontana dal suo ambiente, in casa dei parenti dell’ex marito dove era stata trascinata con la violenza, con la pressante esigenza di tornare a casa e sottrarsi a chi le aveva chiaramente dimostrato, con percosse e minacce, di non tollerare alcun tentativo di ribellione.

La Corte di Cassazione richiamava infine i principi già affermati in tema di reati contro la libertà sessuale: “integra la violazione dell’art. 609 bis del codice penale qualsiasi forma di violenza atta ad incidere sulla libertà di autodeterminazione a nulla rilevando l’esistenza di un rapporto coniugale o paraconiugale tra le parti, atteso che non esiste all’interno di tale rapporto un diritto all’amplesso, né conseguentemente il potere di esigere o imporre una prestazione sessuale” (Cass. n. 14789/2004).

La sentenza 21 novembre 2007 n. 42979

Con la decisione in commento, ad una prima e frettolosa analisi la Cassazione sembra compiere un passo indietro ed affermare che il diritto all’amplesso viene meno quando il rapporto coniugale termina, lasciando sottendere che invece tale diritto sussiste finché l’uomo e la donna portano la fede al dito.

In realtà, le affermazioni contenute in sentenza non devono essere estrapolati dal contesto fattuale sul quale il giudice è chiamato a decidere, ma al contrario devono essere letti tenendo presenti tutti gli elementi che definiscono la fattispecie concreta.

Nel caso in esame, due coniugi si separano a causa di una “incompatibilità anatomica” che rende intollerabile la prosecuzione della convivenza.

Successivamente alla cessazione del matrimonio, gli ex coniugi avevano avuto un rapporto sessuale, alla quale la donna diceva di essersi prestata perché intimorita dall’atteggiamento dell’ex marito e preoccupata per la presenza dei loro figli in altre stanze della casa.

La Suprema Corte, nel confermare la condanna inflitta all’uomo per violenza sessuale, affermava che nel momento in cui cessa il rapporto coniugale viene meno tra i coniugi il diritto/dovere al rapporto sessuale, lasciando intendere che invece tale diritto deve essere riconosciuto quando l’uomo e la donna sono marito e moglie.

Ad una attenta lettura della decisione emerge tuttavia chiaramente che la Corte di Cassazione nel parlare di “diritto/dovere” ha sottolineato come il presunto “diritto” al rapporto sessuale sia in realtà una “umana e ragionevole aspettativa”, che è cosa ben diversa da un diritto esigibile anche senza l’altrui consenso.

Il confine tra esercizio di un diritto (o di una umana aspettativa, o di un diritto/dovere come lo si voglia definire) ed il reato di violenza sessuale consiste sempre e comunque nel consenso, indipendentemente dalla sussistenza di un vincolo coniugale.

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