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Responsabilità medica: i genitori possono essere risarciti se non informati della anomalia genetica del nascituro

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 16754/2012, ha riconosciuto il diritto del neonato a chiedere il risarcimento del danno per essere nato malformato.

Nel caso concreto, la gestante aveva preventivamente indicato al ginecologo che la salute del feto era condizione necessaria alla prosecuzione della gravidanza e pertanto, aveva esplicitamente chiesto di effettuare tutti gli accertamenti necessari tali da escludere la presenza di qualsiasi patologia. Nonostante la richiesta, il medico aveva ritenuto sufficiente sottoporre la paziente unicamente al Tritest, non precedendo ad esami più specifici quali amniocentesi e villocentesi ed omettendo di informarla della limitata certezza statistica dell’esame diagnostico prescritto. Al momento del parto il figlio nasce con la sindrome di Dawn.

Nel febbraio del 1999 i signori B.O. e M.O., in proprio e quali genitori esercenti la potestà sulle figlie minori G. L. e M., adivano il Tribunale di Treviso avanzando richiesta di risarcimento per inadempimento contrattuale del ginecologo in favore di tutta la famiglia. Il Tribunale rigettava la domanda.

Successivamente, i genitori impugnavano la sentenza di primo grado dinnanzi alla Corte D’Appello di Venezia. La Corte rigettava la domanda  ritenendo che la minore M. non poteva far valere quale proprio danno l’essere affetta da malformazione congenita per non essere la madre, per difetto di informazione, essere stata messa in condizione di tutelare il suo diritto alla salute facendo ricorso all’aborto, ritenendo che l’accertamento di una malformazione fetale non è di per sé sufficiente a legittimare un’interruzione di gravidanza.

Tutti i componenti della famiglia O. ricorrevano dinnanzi alla Corte di Cassazione. La corte, ritenuta legittima e fondata la domanda di risarcimento  nei confronti sia della minore sia dei suoi familiari, ha cassato la sentenza impugnata rimettendo alla Corte D’Appello di Venezia la rivalutazione della fondatezza della richiesta di risarcimento avanzata.

IN DIRITTO

La sentenza n.16754 del 2012 si pone a capo di un indirizzo giurisprudenziale orami consolidato, accordando il diritto al risarcimento non solo alla paziente ma anche al neonato direttamente leso affermando che “ una volta accertata l’esistenza di un rapporto di causalità tra un comportamento colposo, anche se anteriore alla nascita, ed il danno che sia derivato al soggetto che con la nascita abbia acquistato la personalità giuridica, sorge e deve essere riconosciuto, in capo a quest’ultimo, il diritto al risarcimento”.

Il ragionamento della Corte si fonda sul presupposto che la tutela risarcitoria accordata  al minore malformato trova il suo riconoscimento negli articoli 2, 3, 29, 30 e 32 della Costituzione, ovvero la Stessa ha ritenuto che, essendo ricompresi tra i diritti fondamentali dell’individuo la  tutela della maternità e della salute, tali garanzie non possono essere limitate alle attività che si esplicano dopo la nascita ma devono necessariamente estendersi e ricomprendere il dovere di assicurare le condizioni favorevoli nel periodo che precedono il parto e volte a garantire l’integrità del nascituro.

A tal proposito si rimanda a quanto già affermato dalla Cassazione nel 2009. Con sentenza n. 1074, la Corte, posto che è diritto del nascituro  nascere sano, ha riconosciuto allo stesso il diritto al risarcimento del danno subito a causa di un trattamento medico risultato dannoso. Con quest’ultima decisione pertanto la Corte ha riconosciuto un maggiore campo di intervento al contratto sociale che si instaura tra il medico ed il paziente ( nel caso concreto la madre), ampliando i suoi effetti anche all’altro genitore ed al nascituro. Tale orientamento è stato poi successivamente confermato dalla stessa Corte in diverse occasioni, basti ricordare la sentenza n.9700 del 2011 con la quale ha riconosciuto il diritto al risarcimento della nascitura per privazione della figura paterna durante la gestazione quale danno futuro, ovvero una lesione cagionata al feto durante la gestazione da cui deriva il diritto al risarcimento solo al momento della nascita.

Nel caso di specie la Corte ha pertanto ritenuto configurabile “il diritto al risarcimento del nato geneticamente malformato nei confronti del medico che non abbia colposamente effettuato una corretta diagnosi in sede ecografica ed abbia così precluso alla madre il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza, che ella avrebbe in ipotesi domandato” , non solo ai suoi genitori.

In tali ipotesi, tra i soggetti che hanno diritto al risarcimento del danno non patrimoniale vengono indicati anche   i fratelli/ sorelle del minore malformato, in quanto quest’ultimi vengono indirettamente ricompresi tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante avendo presuntivamente l’attitudine a subire un danno non patrimoniale, quali il “ danno consistente nella minore disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato  al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione (..)”.

Secondo tale ricostruzione sarebbero individuati  diversi interessi lesi: da un lato il diritto alla procreazione cosciente e responsabile della madre, difatti “in tema di responsabilità del medio per omessa diagnosi di malformazione del feto e conseguente nascita indesiderata, l’inadempimento del medico rileva in quanto impedisce alla donna di compiere la scelta di interrompere la gravidanza (..)” e di riflesso vengono danneggiati gli altri figli ed il padre, ed inoltre il diritto alla salute del nascituro. A tutti gli interessi ed i soggetti lesi viene riconosciuta  una tutela risarcitoria.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 10 gennaio – 2 ottobre 2012, n. 16754

(Presidente: Dott. Alfonso Amatucci – Estensore: Dott. Giacomo Travaglino)

…omissis…

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Nel febbraio del 1999 M. B. O. e M. O., in proprio e nella qualità di genitori esercenti potestà sulle figlie minori G., L. e M., convennero in giudizio dinanzi al tribunale di Treviso il ginecologo P. D. e la USSL 8 di X., esponendo:

· Che la signora B., appena consapevole del proprio stato di gravidanza, si era rivolta al dott. D. chiedendo di essere sottoposta a tutti gli accertamenti necessari ad escludere malformazioni del feto;

· Che la nascita di un bimbo sano era stata rappresentata al sanitario come condizione imprescindibile per la prosecuzione della gravidanza;

· Che il dott. D. aveva proposto e fatto eseguire alla gestante il solo “Tritest”, omettendo di prescrivere accertamenti più specifici al fine di escludere alterazioni cromosomiche del feto;

· Che nel settembre del 1996 era nata la piccola M., affetta da sindrome di Dawn.

Il ginecologo, nel costituirsi, contestò analiticamente tutti gli addebiti, chiedendo nel contempo l’autorizzazione alla chiamata in causa della propria compagnia assicuratrice.

Si costituì in giudizio anche l’azienda sanitaria, lamentando, in rito, la nullità del libello introduttivo attoreo (per mancata specificazione delle ragioni di fatto e di diritto sui quali era fondata la domanda risarcitoria) e la carenza di legittimazione attiva delle minore, eccependo poi, nel merito, il regime – cd. in extra moenia – nel quale il medico aveva, da libero professionista, assistito l’attrice. L’azienda contestò, ancora nel merito, la stessa fondatezza della pretesa risarcitoria, per resistere alla quale chiese anch’essa il differimento della prima udienza, onde chiamare in causa le proprie compagnie assicurative succedutesi nel rapporto di garanzia durante l’anno 1996.

L’Assitalia (compagnia assicuratrice del dott. D.), nel costituirsi, aderì in toto alle difese del proprio assicurato.

Le Assicurazioni Generali (originaria assicuratrice della USL) eccepì, all’atto della costituzione in giudizio, la cessazione degli effetti della polizza stipulata con la struttura sanitaria nel 30 giugno 1996; declinò ogni responsabilità vicaria per i fatti successivi a tale data; fece proprie, nel merito, le difese della propria garantita – salva richiesta, in caso di condanna del sanitario, di essere da questi rimborsata di quanto eventualmente tenuta a corrispondere agli attori.

La RAS (succeduta alle Generali nel rapporto assicurativo con l’unità sanitaria) eccepì, in limine, la non operatività della polizza, per essere la vicenda di danno lamentata dagli attori riferibile ad un’epoca anteriore alla data del suo subingresso alla precedente compagnia, contestando poi nel merito le pretese risarcitorie nell’an, nel quantum, nel quivis.

Il giudice di primo grado, previa declaratoria di difetto di legittimazione attiva della minore M. O., respinse la domanda dei genitori e dei fratelli.

2.- La corte di appello di Venezia, investita del gravame proposto dagli attori in prime cure, lo rigettò:

– sul punto del ritenuto difetto di legittimazione attiva di M. O., facendo propri alcuni passi della motivazione della sentenza 14888/2004 con la quale questa Corte di legittimità aveva respinto una analoga richiesta, affermando il principio di diritto a mente del quale verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l’essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto di informazione, messa in condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all’aborto;

– con riferimento alla pretesa risarcitoria dei familiari, fondata sul preteso inadempimento contrattuale del sanitario, ritenendo quest’ultimo del tutto esente da colpa.

Nel rigettare la detta pretesa, la corte lagunare osserverà, in particolare:

– che, nella specie, la sola indicazione del cd. “tritest” quale indagine diagnostica funzionale all’accertamento di eventuali anomalie fetali doveva ritenersi del tutto giustificata, alla luce dell’età della signora B. (al tempo dei fatti soltanto ventottenne) e dell’assenza di familiarità con malformazioni cromosomiche, onde l’esecuzione di un test più invasivo come l’amniocentesi (che la partoriente conosceva “per sentito dire”) avrebbe potuto essere giustificata soltanto da una esplicita richiesta, all’esito di un approfondito colloquio con il medico sui limiti e vantaggi dei test diagnostici, mentre non risultava né provato né allegata la richiesta di sottoposizione a tale esame;

– che l’accertamento di una malformazione fetale “non è di per sé sufficiente a legittimare un’interruzione di gravidanza”, posto che, nella specie, tale interruzione sarebbe stata praticata nel secondo trimestre, mentre la sussistenza dei relativi presupposti di legge, exart. 6 della legge n. 194/1978 non era neppure stata adombrata dagli attori, onde nessuna prova poteva dirsi legittimamente acquisita al processo in ordine alla esposizione della donna a grave pericolo per sua la vita o per la sua salute fisica o psichica in caso di prosecuzione della gravidanza nella consapevolezza della malformazione cromosomica del feto;

– che lo “spostamento” della quaestio iuris sul versante della carenza di informazione, operato in sede di appello, doveva ritenersi del tutto estraneo e diverso rispetto alla fattispecie sì come originariamente rappresentata in funzione risarcitoria: non era stata, difatti, censurata, con il libello introduttivo, la privazione del diritto di scelta della puerpera a causa di esami fatti male o non fatti, bensì l’inadempimento della prestazione sanitaria richiesta dalla signora B. al dott. D..

3.- La sentenza è stata impugnata da tutti i componenti della famiglia O. con ricorso per cassazione articolato in sei motivi.

Resistono con controricorso P. D., le Assicurazioni Generali, l’Ina Assitalia, L’Allianz, l’Azienda sanitaria USSL 8 di Y..

Le parti ricorrenti e le resistenti Assitalia e Allianz, hanno depositato memorie illustrative.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Devono essere in limine esaminate le due preliminari questioni processuali poste al collegio dalla difesa della controricorrente USSL 8.

Entrambe appaiono prive di pregio.

– Quanto alla erronea spendita della veste di rappresentanti legali delle due figlie – divenute nelle more maggiorenni – da parte dei genitori (circostanza che, in sé considerata, renderebbe il ricorso inammissibile, secondo quanto opinato da Cass. ss.uu. 15783/2005), va rilevato come, al di là ed prescindere da tale, erronea qualificazione a loro stessi ascritta da parte dei coniugi B./O., tanto L. quanto G. B. hanno personalmente sottoscritto la procura speciale apposta in calce al ricorso per cassazione, onde la impropria indicazione di una (ormai spirata) rappresentanza legale dei genitori si risolve, ai fini della regolare costituzione in giudizio, in un irrilevante flatus vocis, atteso che il nome delle ricorrenti viene legittimamente indicato e speso in proprio dal difensore altrettanto legittimamente fornito di procura alle liti;

– Quanto alla pretesa carenza di poteri rappresentativi in appello degli stessi coniugi O. riguardo alla figlia L., la vicenda deve ritenersi coperta da giudicato implicito ai sensi del disposto dell’art. 346 c.p.c.: la corte territoriale, difatti, dopo aver affrontato la questione della legittimazione attiva – escludendola – di M. O. (ff. 9 ss. della sentenza impugnata), rigetterà l’appello nel merito, senza affrontare il tema (pur rilevabile ex officio, essendo stato sollevato, a torto o a ragione, una questione di legitimatio ad causam e non di mera titolarità del rapporto sostanziale) della rappresentanza dei genitori con riferimento alla posizione processuale di L. O. – la cui domanda verrà conseguentemente rigettata per motivi di merito (il cui esame presuppone positivamente superata il vaglio delle questioni pregiudiziali e/o preliminari di rito da parte del giudice procedente). Sarebbe stato pertanto necessario proporre, da parte degli interessati, un ricorso incidentale avente ad oggetto il relativo capo implicito della sentenza; impugnazione nella specie non proposta, senza che la relativa eccezione contenuta nel controricorso possa ritenersi “convertita” in censura incidentale per l’assenza dell’essenziale requisito dell’istanza di riforma della sentenza di secondo grado impugnata.

Non merita, infine, accoglimento l’eccezione, sollevata da più d’una della parti controcorrenti, di inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366 bis c.p.c. nella formulazione anteriore alla novella del 2009, atteso che la sentenza impugnata risulta depositata il 2 novembre 2010 (epoca successiva all’abrogazione della norma sui quesiti di diritto, pertanto inapplicabile nella specie ratione temporis), mentre la doglianza di difetto autosufficienza del ricorso appare contraddetta ictu oculi dalla semplice lettura dell’odierna impugnazione (cui, piuttosto, potrebbero al più muoversi censure – peraltro irrilevanti sul piano giuridico – di segno contrario).

2.- Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 345 e 346 c.p.c. – Vizio logico di motivazione.

Il motivo è fondato.

Risulta espresso e non equivoco, nel corpo dell’atto di citazione di primo grado (che i ricorrenti riportano, per quanto rilevante in parte qua, al folio 15 dell’odierno atto di impugnazione), il riferimento “alla valutazione sul livello di consenso informato che il referto relativo al tritest determina, non essendovi alcun modo per una paziente incolta di medicina di riuscire a comprendere la relativa finalità, e che ad esso non era possibile affidarsi con certezza per sapere se vi fossero o non vi fossero le paventate anomalie”; onde il successivo atto di appello del tutto legittimamente denuncerà (a fronte di una sentenza di primo grado che inesattamente imputa all’attrice “di non aver dimostrato di avere espressamente richiesto l’effettuazione di accertamenti invasivi diversi”) la mancata informazione, da parte dei competenti sanitari, circa la complessiva attendibilità del test prescelto a dispetto della precisa richiesta della gestante di venir resa partecipe di eventuali malattie genetiche del feto e della altrettanto espressa intenzione, in tal caso, di non portare a termine la gravidanza.

A tanto consegue la impredicabilità di qualsivoglia “spostamento del thema decidendum dal primo al secondo grado” erroneamente rilevato dalla corte di appello, la cui pronuncia deve, sul punto, essere cassata.

3.- Con il secondo motivo, si denuncia:

a) violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 c.c. per mancato accertamento dell’inadempimento contrattuale rispetto alla richiesta di diagnosi e al dovere di fornirla e di dare corretta informazione circa l’inidoneità degli esami previsti in funzione della diagnosi richiesta; mancata motivazione sul punto;

b) violazione dell’art. 32 comma 1 e 2 Cost.

c) violazione dell’art. 2697 c.c. in ordine al riparto degli oneri probatori relativi al’adempimento del dovere di informazione preventiva circa i limiti oggettivi di affidabilità delle metodiche alternative alla diagnosi suggerite

Il motivo è fondato.

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