IL FATTO
Una coppia di coniugi di Milano, dopo aver scoperto che la donna era affetta da una malattia autoimmune, causa di impedimento alla fertilità e dopo vari ma ed infruttuosi tentativi di rimanere incinta adoperando tecniche mediche tradizionali consentite in Italia dalla legge 40/2004, decideva di ricorrere a nuove tecniche di procreazione medicalmente assistita legali solamente all’estero.
Nell’ottobre 2009, quindi, la coppia si rivolgeva a una clinica specializzata di Kiev, la “Biotexcom”, per procedere ad una fecondazione assistita eterologa: in totale conformità alla legge ucraina e al codice familiare ucraino, la coppia sottoscriveva un contratto di maternità surrogata con ovodonazione.
In particolare, oggetto della prestazione professionale era quello di “generare un figlio previa formazione dell’embrione, in vitro, con il 50% del patrimonio genetico del padre e l’altra metà proveniente da un’ovodonatrice, individuata dalla stessa clinica in un elenco di donne tutte volontarie, in un’età compresa tra i 20 e i 32 anni, in buono stato di salute”.
A seguire, moglie e marito si recavano a conoscere la ragazza scelta come “madre surrogata” del loro futuro figlio, incontrandola più volte ed accompagnandola costantemente durante l’evoluzione della gravidanza recandosi personalmente a Kiev più volte.
Altresì, la signora negli ultimi mesi antecedenti alla nascita decideva di indossare un cuscino addominale, per simulare di essere in stato interessante.
Nel 2010 nasceva a Kiev il bimbo di cui, sin dal primo istante di vita, la coppia si prendeva cura. Parallelamente ed in forma notarile, la madre surrogata attestava l’inesistenza di qualsiasi relazione genetica con il bambino prestando il consenso all’indicazione dei coniugi quali genitori.
In base a tali presupposti la legge ucraina formava l’atto di nascita, riconoscendo la coppia italiana quali genitori del neonato.
I problemi per i due genitori sorgono quando, nel momento di lasciare l’Ucraina con il piccolo, quest’ultimi si recano personalmente all’ambasciata italiana a Kiev per far richiesta dei documenti necessari per il rientro in Italia e per la trascrizione dell’atto di nascita del figlio nell’ufficio anagrafico di loro appartenenza, ovvero quello di Milano.
Infatti, la coppia di comune accordo decide di simulare nei confronti delle autorità nazionali una gravidanza naturale della donna, dichiarando alle autorità competenti di aver partorito da poco.
I funzionari dell’ambasciata italiana a Kiev, poco convinti del racconto dei coniugi, decidevano di comunicare quanto accaduto alla Procura della Repubblica di Milano, la quale, sulla base delle indagini svolte – tra cui una consulenza tecnica, che dimostrava l’incompatibilità tra il profilo genetico della donna e del neonato – otteneva il rinvio a giudizio di entrambi i genitori, accusati del reato di alterazione di stato nella formazione dell’atto di nascita del neonato, punito con una pena assai severa con la reclusione dai 5 ai 15 anni.
La quinta sezione del Tribunale Penale di Milano con sentenza del 15 ottobre 2013, depositata il 13 gennaio 2014, assolve gli imputati, ritenendo che nel caso di specie il reato non sussiste perchè alcuna alterazione di stato è stata compiuta.
IN DIRITTO
Nel caso in esame la Corte Penale di merito dichiara che manca l’elemento oggettivo tipico della fattispecie penale contemplata all’art. 567, comma 2, c.p. in quanto “solo la falsità espressa al momento della prima obbligatoria dichiarazione di nascita è in grado di determinare la perdita del vero stato civile del neonato, mentre le altre dichiarazioni mendaci rese in un’epoca successiva possono eventualmente integrare il meno grave reato di false attestazioni in atto pubblico”.
In altre parole, ad avviso del Tribunale, malgrado la condotta dei coniugi diretta a simulare nei confronti dell’autorità consolare una gravidanza naturale, gli imputati andavano assolti dal reato ipotizzato dalla pubblica accusa in quanto l’atto di nascita, avente l’indicazione del nominativo della madre “sociale” quale genitore del neonato, era nel pieno rispetto della legge ucraina che ammette e riconosce la procreazione medicalmente assistita ed è valido automaticamente anche in Italia.
Secondo quanto previsto dal nostro ordinamento, infatti, dall’art. 15 del d.P.R. n. 396/2000 (il c.d. Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile) le dichiarazioni di nascita effettuate dagli italiani all’estero devono avvenire secondo la legge regolatrice di quel paese ove è avvenuto l’evento rilevante: i coniugi milanesi, quindi, in conformità della legge italiana che rinvia a quella ucraina non hanno compiuto alcuna alterazione dello status così attribuito al neonato. Come si legge dal testo della sentenza “è stata la stessa norma di diritto interno a richiedere ai coniugi di accettare, nell’atto di nascita del figlio partorito in Ucraina da madre surrogata, l’indicazione di entrambi quali genitori, in base alla legge lex loci che vietava in particolare alla donna milanese – dopo la sottoscrizione del contratto di maternità surrogata – di sfuggire alla responsabilità genitoriale conseguente”.
Ma questa recente sentenza di Milano appare ancora più interessante, quanto significativa, nelle sue conclusioni – in Italia ove la maternità surrogata è ancora un divieto espresso dalla legge 40/2004 -, quando dichiara apertamente che alcuna violazione dell’ordine pubblico interno ed internazionale è stata compiuta, ribadendo implicitamente che tra i principi fondanti dell’ordinamento internazionale e comunitario, come riconosciuto ampiamente dalla giurisprudenza della Corte CEDU, vi sia sicuramente quello di una coppia di concepire un figlio mediante le tecniche di procreazione assistita, come il diritto per una donna di diventare madre ricorrendo alla fecondazione eterologa.
Una conclusione, questa della Corte di Milano, che si allinea alle cognizioni scientifiche e culturali moderne, ma che si scontra inevitabilmente con la legislazione ancora vigente nel nostro paese, uno dei pochi paesi europei, insieme alla Lituania e alla Turchia, a vietare completamente la donazione di gameti e la fecondazione assistita eterologa.
TRIBUNALE DI MILANO – SEZ. V PENALE – sent. 15 ottobre 2013 – dep. 13 gennaio 2014
IMPUTATI
A. C. (padre) dif. fid. Avv. Luigi Isolabella e Nicola Petrantoni
S. B. (madre) dif. fid. Avv. Luigi Isolabella e Umberto Ambrosoli
del reato di cui ag1i artt. 110 e 567 c. 2 cp perché in concorso tra loro nella formazione dell’atto di nascita di G. C. (nato a Kiev in Ucraina il xxxx 2010) perfezionatosi con la sottoscrizione dell’ʹatto da parte dell’ʹufficiale di stato civile del comune di Milano e la contestuale trascrizione nei predetti registri avvenuta in data xxx 2010 alteravano lo stato civile del neonato mediante false attestazioni. In particolare nella richiesta di trascrizione dell’ʹatto di nascita nei registri di stato civile del comune
di Milano da loro personalmente sottoscritta nelle rispettive dichiarate qualità di padre e madre di G. e presentata all’ʹambasciata italiana in Kiev il xxx 2010, dichiaravano uno stato civile del minore non conforme all’ʹeffettiva discendenza attestando falsamente che il bambino è il figlio di S. B.
In Milano il xxxx 2010 (data della trascrizione dell’atto di nascita nei registri dello
stato civile del comune di Milano)
– IN FATTO E IN DIRITTO –
1. I coniugi A. C. e S. B. venivano tratti a giudizio per rispondere dell’imputazione di alterazione di stato specificata in epigrafe.
Nel corso del dibattimento le parti concordavano l’acquisizione integrale della documentazione raccolta in corso di indagine, ai sensi dell’art. 493 comma 3 cod. proc. pen.; il Tribunale acquisiva ulteriore documentazione, sentiva il teste E. C. e procedeva all’esame degli imputati.
Le parti precisavano quindi le conclusioni, e chiedevano: il pubblico ministero la condanna dei prevenuti alla pena di due anni e tre mesi di reclusione ciascuno, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e di quella di avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale; le difese l’assoluzione, per insussistenza del fatto.
2. L’approccio pienamente collaborativo degli imputati, che si è concretizzato nel consenso all’utilizzabilità di tutta la documentazione di indagine e nell’esame dibattimentale reso da entrambi senza alcuna reticenza, ha consentito di ricostruire i fatti in maniera completa e, sostanzialmente, incontroversa.
La vicenda trae origine dall’impossibilità di avere figli verificata, dopo il matrimonio, dalla coppia C. – B. ed è emblematica, nella sua evoluzione, delle difficoltà a realizzare il diritto alla genitorialità di cui, nonostante l’evoluzione delle tecniche medico – scientifiche, le famiglie gravate da problemi riproduttivi continuano a doversi fare carico.
2. Dopo avere scoperto di essere affetta da una malattia autoimmune, il (XX YY), che richiedeva la sottoposizione a terapie farmacologiche di ostacolo al concepimento, nonostante i rischi per la propria salute S. B. decideva egualmente di sottoporsi ad alcuni cicli di stimolazione ormonale, sia con tecniche tradizionali che con l’assistenza di un ginecologo naturopata, e ricorreva successivamente alla fecondazione in vitro nel tentativo di rimanere incinta mettendo in pratica le tecniche mediche consentite in Italia dalla legge n. 40/2004: tutte le iniziative rimanevano, però, senza esito.
Superata nel 2008 una riacutizzazione della malattia, dopo quasi trent’anni e grazie anche all’ingresso in menopausa la signora B. sperimentava una remissione della patologia, che ne riportava alla normalità le prospettive di sopravvivenza.
Parallelamente, venivano rilanciate le possibilità di essere madre di un bambino in grado di crescere con il supporto di entrambe le figure genitoriali e ciò sosteneva, in accordo con il marito A. C., la decisione di ricorrere a nuove tecniche di procreazione medicalmente assistita che, in ragione delle condizioni sopravvenute, potevano essere praticate solamente all’estero.
Traendo spunto dalle notizie apparse su alcuni organi di stampa, la coppia si rivolgeva in un primo momento ad un centro specializzato in medicina riproduttiva statunitense; nell’ottobre 2009 decideva quindi di procedere ad una fecondazione assistita eterologa presso la clinica Biotexcom di Kiev, in Ucraina; esaminava gli aspetti medici e legali del percorso proposto e sottoscriveva un contratto di maternità surrogata con ovodonazione.
Tanto il contratto quanto l’articolazione successiva del rapporto sono stati pienamente conformi alla legge ucraina, in forza del combinato disposto degli articoli 123 e 139 del codice della famiglia, 11 del decreto del Ministero della Giustizia n. 52/5 del 18.10.2000, 5 e 7 del decreto del Ministero della Salute n. 771 del 23.12.2008.
All’esito delle apposite procedure, gli imputati – in qualità di coppia eterosessuale risultata, oggettivamente, nell’impossibilità di portare a termine una gravidanza “tradizionale” – sono stati ammessi al programma; hanno generato un figlio previa formazione dell’embrione, in vitro, con il 50% del patrimonio genetico di A. C. e l’altra metà proveniente da una ovodonatrice, individuata dalla clinica in un elenco di donne, tutte volontarie, di età compresa tra i 20 e 32 anni, in buono stato di salute, prive di malattie ereditarie, che avevano già portato a termine almeno una gravidanza generando figli nati sani e nei cui confronti non esisteva alcuna delle controindicazioni contemplate dall’art. 5 del decreto n. 771/2008; la madre surrogata cui l’embrione è stato impiantato, anch’ella volontaria, maggiorenne, con piena capacità giuridica, sottoscrittrice di un consenso informato scritto, è stata scelta da un elenco di donne che avevano avuto almeno una gravidanza propria e non presentavano controindicazioni mediche a portarne a termine un’altra.
In conformità alla legge ucraina gli imputati accettavano di corrispondere, oltre al compenso della clinica, il rimborso delle spese sostenute dalla madre surrogata, per un costo complessivo di 30.000 euro; conoscevano questa donna, di nome Natasha, già prima dell’impianto dell’embrione; in seguito, la incontravano più volte e seguivano costantemente l’evoluzione della gravidanza, assistendo anche alla prima ecografia; sirecavano nuovamente a Kiev per seguire direttamente le ultime fasi della gestazione ed il parto.
Nel frattempo l’abitazione veniva ristrutturata, per preparare la cameretta del bambino; e la signora B. provvedeva negli ultimi mesi ad indossare un cuscino addominale, in gommapiuma, per simulare di essere in stato interessante.
Il xxxx 2010 nasceva G. e l’imputata, ricoverata insieme a Natasha, se ne occupava sin dal primo istante di vita. Parallelamente, la madre surrogata attestava in forma notarile l’inesistenza di qualsiasi relazione genetica con il bambino e prestava il consenso all’indicazione dei coniugi C. quali genitori.
In base a tali presupposti, come previsto dalla legge ucraina l’ufficiale di stato civile di Kiev formava l’atto di nascita indicando in A. C. il padre e in S. B. la madre del neonato. Non avrebbe potuto provvedere diversamente: in forza dell’art. 139 comma 2 del codice della famiglia, la maternità così determinata non è soggetta a contestazione; né, alla luce dell’art. 5 comma 2 del decreto n. 771/2008, la donatrice di gameti avrebbe potuto assumere alcuna responsabilità genitoriale.
L’atto di nascita originale veniva quindi tradotto in lingua italiana ed apostillato – ovvero munito di un’annotazione che ne attesta sul piano internazionale l’autenticità e la qualità legale dell’autorità rilasciante xxxx come contemplato dalla Convenzione dell’Aja del 5.10.1961 che sopprime la legalizzazione degli atti pubblici esteri, cui hanno aderito anche Italia (con la legge di ratifica 20.12.1966 n. 1253) e Ucraina: il documento che indicava in S. B. e A. C. i genitori del neonato risultava così perfezionato, valido, completo, di autenticità certificata sul piano internazionale e suscettibile di divenire efficace anche nell’ordinamento italiano.
Al fine di sollecitarne la trascrizione e di individuare in quello di Milano l’ufficio anagrafico territorialmente competente i coniugi C. compilavano, sottoscrivevano e presentavano all’ambasciata italiana il modulo previsto dall’art. 17 d.P.R. n. 396/2000 indicando, rispettivamente, le qualità di padre e madre attestate dal certificato formato in Ucraina; su questa base, venivano rilasciati pure i documenti di viaggio necessari a rientrare col bambino in Italia.
Nell’occasione, senza che fosse necessario alla registrazione dell’atto o all’emissione dei documenti del neonato, di comune accordo gli imputati decidevano però anche di simulare nei confronti delle autorità italiane una gravidanza naturale.
In seguito alla domanda del funzionario consolare che, esaminati i visti di ingresso sul passaporto di S. B., chiedeva come le fosse stato possibile effettuare il viaggio in aereo a Kiev al nono mese di gravidanza e solo una settimana prima del parto, A. C. rispondeva (inverosimilmente) che lo stato interessante non era visibile; su consiglio del direttore della Biotexcom e con il chiaro intendimento di continuare a simulare una gravidanza naturale dopo il rientro a Milano, subito dopo avere passato i controlli di frontiera all’aeroporto di Kiev e prima di salire sull’aereo che riportava la famiglia in Italia i prevenuti distruggevano, altresì, tutta la documentazione ucraina comprovante la maternità surrogata: necessaria a lasciare il Paese, e che sarebbe stato viceversa opportuno conservare a riscontro della piena legittimità dello status genitoriale acquisito secondo la legge del luogo di nascita di G.. I funzionari dell’ambasciata d’Italia a Kiev non venivano in alcun modo ingannati dalle parole di A. C. volte a rappresentare falsamente il carattere naturale della maternità della moglie: il xxxx 2010 la cancelleria consolare trasmetteva al comune di Milano l’atto di nascita, per la trascrizione, e in pari data, con separata nota ai sensi dell’art. 331 comma 1 cod. proc. pen., comunicava quanto accaduto alla Procura della Repubblica di Milano, alla Questura di Roma, al Ministero degli esteri ed all’ufficiale di stato civile di Milano.
Quest’ultimo, pur informato della probabile maternità surrogata, il xxxx 2010 decideva di registrare l’atto di nascita di G. C. comprensivo dell’attribuzione a S. B. della qualità di madre.
A differenza delle autorità giudiziarie di Bologna, Catania, Venezia, Salerno, Pordenone e Caltagirone, che in situazioni analoghe hanno definito il procedimento con un’archiviazione o una sentenza di non luogo a procedere (nei termini riscontrati dalla documentazione versata in atti), la Procura della Repubblica di Milano dava invece seguito alla notizia di reato, procedeva ad intercettazioni di cinque utenze telefoniche fisse e cellulari riconducibili agli imputati, esperiva una consulenza tecnica genetico forense che dimostrava l’incompatibilità tra il profilo genetico di G. C. e quello di S. B., confermando invece la paternità biologica dell’imputato; raccoglieva inoltre le sommarie informazioni testimoniali dei medici che hanno avuto in cura S. B., del pediatra del bambino, del custode dello stabile di abitazione, di alcuni vicini di casa e dipendenti della XY ove l’imputata insegna, acquisiva documentazione in Italia e all’estero. Su questa base chiedeva ed otteneva il rinvio a giudizio degli imputati, ipotizzando a loro carico il reato di alterazione di stato nella formazione dell’atto di nascita di G. C..
3. Non si è verificata, in realtà, alcuna alterazione di stato.
L’atto di nascita è stato formato correttamente, in Ucraina, nel rispetto della legge del luogo ove il bambino è nato, all’esito di una procreazione medicalmente assistita conforme alla lex loci e recependo nelle indicazioni sull’ascendenza il preciso obbligo normativo di riportare solamente il nominativo della madre sociale.
Secondo la legge ucraina, tale attribuzione all’imputata dello status di madre era infatti necessaria ed indefettibile. Gli imputati non avrebbero potuto rendere una dichiarazione di diverso tenore all’ufficiale di stato civile di Kiev; né questi xxxx, pienamente a conoscenza della maternità surrogata data l’acquisizione del certificato medico di nascita con indicazione della partoriente, della sua dichiarazione notarile di inesistenza di legami genetici con il bambino e dell’assenso all’indicazione nell’atto della madre legale -‐‑ avrebbe potuto agire contra legem e riferire la maternità alla donatrice di gameti o alla donna che aveva portato a termine la gravidanza.
Per contro, avrebbe alterato lo stato giuridico che l’autorità ucraina aveva il dovere di riconoscere al bambino, in seno all’unica famiglia che poteva essergli riferita, giusto quell’impossibile e (secondo la lex loci) giuridicamente errata attribuzione alla partoriente della qualità di madre di cui il pubblico ministero ha sostenuto, invece, la necessità. Lo stato civile indicato nell’atto di nascita di G. C. è dunque quello previsto dalla legge per la sua condizione di nato a Kiev da una maternità surrogata e non ha subìto alcuna alterazione: l’attribuzione dell’ascendenza che alla luce della qualificazione giuridica del rapporto di procreazione effettivamente gli competeva esclude, in radice, la sussistenza dello stesso elemento oggettivo tipico della fattispecie contestata.
Considerato altresì che l’atto di nascita così compiutamente e validamente formato è stato tradotto ed apostillato nel rispetto delle condizioni che ne presidiano la validità e l’efficacia sul piano internazionale, a mente della Convenzione dell’Aja del 5.10.1961; e che per giurisprudenza costante di legittimità (cfr. Cass. pen., sez. VI, sentenza 5.5.2008 n. 35806, Rv n. 241254; Cass. pen., sez. VI, sentenza 24.10.2002 n. 5356, Rv n. 223933; Cass. pen., sez. VI, ordinanza 14.6.1994 n. 9938, Rv n. 199164 e la giurisprudenza ivi rispettivamente ed ulteriormente richiamata) solo la falsità espressa al momento della prima obbligatoria dichiarazione di nascita è in grado di determinare la perdita del vero stato civile del neonato, mentre le dichiarazioni mendaci rese in epoca successiva possono eventualmente integrare il meno grave reato di falsa attestazione o dichiarazione su qualità personali ex art. 495 comma 2 n. 1 cod. pen., per ciò solo il reato di alterazione di stato risulta, nella specie, inconfigurabile.
Non hanno pregio, sul punto, le allegazioni del pubblico ministero in merito all’asserita incompletezza della formazione dell’atto di nascita in Ucraina ed al suo perfezionamento in Italia, da parte dell’ufficiale di stato civile del comune di Milano.
L’insostenibilità logica dell’incompletezza di un atto compiutamente formato all’estero in tutti i suoi elementi costitutivi e ritualmente sottoscritto dalla pubblica autorità del luogo di nascita del bambino; la conseguente legalizzazione mediante apposizione in calce dell’apostille, nelle forme richieste dalla Convenzione dell’Aja del 5.10.1961, impossibile qualora l’atto fosse stato incompleto e significativa, allo stesso tempo, della sua attitudine a divenire efficace anche nel nostro ordinamento; l’intero sistema normativo di diritto interno inerente il recepimento degli atti di stato civile formati all’estero ed, in particolare, il tenore letterale dell’art. 17 del d.P.R. 3.11.2000 n. 396 che ne prevede la “trascrizione” (non la rinnovazione o la formazione ex novo); l’art. 15 del medesimo d.P.R., secondo cui le dichiarazioni di nascita effettuate da cittadini italiani all’estero “devono farsi secondo le norme stabilite dalla legge del luogo alle autorità locali competenti” rendono evidente che l’atto di nascita di G. C. è stato ritualmente, completamente e validamente formato dall’ufficiale di stato civile di Kiev, in conformità alla legge italiana che rinvia a quella ucraina e senza che sia intervenuta alcuna alterazione dello status così attribuito al neonato in seno all’unica famiglia che gli doveva essere riferita.
Ma vi è di più: il rinvio alla lex loci operato dall’ordinamento interno funge da norma cardine del sistema, e impronta la disciplina degli atti dello stato civile formati all’estero in maniera conforme alla scelta – condivisa a livello internazionale – di individuarne la legge regolatrice in quella dell’ordinamento ove l’evento rilevante è avvenuto. Ė dunque la stessa legge italiana ad imporre ai cittadini italiani all’estero di effettuare le dichiarazioni di nascita all’ufficiale di stato civile straniero e secondo la legge del luogo ove l’evento è avvenuto: esattamente quel che A. C. e S. B. hanno fatto. Pertanto: non solo non ricorre alcuna alterazione di stato, in difetto della stessa materialità della condotta; e non solo sarebbe stato inesigibile e non sanzionabile sul piano penale l’obbligo di tenere, in territorio estero, una condotta contraria alle leggi di quello Stato. Ė stata la stessa norma di diritto interno a richiedere ai coniugi C. di accettare, nell’atto di nascita del figlio partorito in Ucraina da madre surrogata, l’indicazione di entrambi quali genitori, in base alla lex loci che vietava in particolare a S. B. – dopo la sottoscrizione del contratto di maternità surrogata – di sfuggire alla responsabilità genitoriale conseguente.
4. In questo quadro anche il richiamo all’ordine pubblico, formulato a sostegno della richiesta di condanna nel presupposto che l’atto di nascita con indicazione dell’imputata quale madre vi si ponga in contrasto insanabile, in violazione dei divieti di surrogazione di maternità e di fecondazione eterologa stabiliti in Italia dal combinato disposto degli artt. 4 comma 3 e 12 commi 1 e 6 della l. n. 40/2004, non vale ad integrare la ricorrenza di un’alterazione di stato.
In primo luogo, si tratta già astrattamente di un limite che non attiene al momento genetico della formazione dell’atto di nascita, l’unico in cui il delitto ex art. 567 cpv. cod. pen. può essere consumato, ma quello successivo dell’eventuale recepimento degli effetti di un atto pubblico formato all’estero: la formulazione letterale dell’art. 18 del d.P.R. 3.11.2000 n. 396 chiarisce, senza possibilità di equivoco, che non è la creazione (disciplinata unicamente dalla lex loci) ma la successiva trascrizione dell’atto perfezionatosi nell’ordinamento straniero a potere esser